Il danno è iure proprio per le sofferenze dovute
all’affidamento mal riposto nel miglioramento del congiunto e iure hereditatis
per la lesione del diritto all’autodeterminazione
Ad un uomo viene diagnosticato un tumore ai polmoni incurabile ed inizia la
terapia a base di chemioterapia e morfina. I suoi familiari, tramite un terzo,
vengono messi in contatto con un medico che li persuade ad abbandonare le cure
e ad assumere un solo farmaco, garantendo la guarigione. Stante l’assenza di
miglioramenti, i congiunti contattano ancora il professionista, che consiglia
la somministrazione via endovena ma, di lì a poco, il malato perde la vita. I
familiari agiscono in giudizio al fine di ottenere il risarcimento del danno.
In sede penale, il sanitario che ha turlupinato la famiglia della vittima viene
condannato per diversi reati, tra cui truffa in concorso con il primo
medico e, in sede civile, i due vengono condannati al ristoro del risarcimento
del danno. Il medico che ha prescritto il farmaco ricorre in Cassazione e
deduce che i familiari non avrebbero diritto ad alcun ristoro stante la
mancanza del nesso causale tra la sua condotta
illecita e la morte del malato.
La Corte di Cassazione, Sezione III, con l’ordinanza 22 maggio 2024, n.
14245 (testo in calce), rigetta il ricorso del medico e afferma
che i parenti della vittima hanno diritto al risarcimento del pregiudizio
patito sia iure proprio che iure hereditatis.
Secondo i giudici di legittimità, il ricorso del sanitario è diretto a fornire
una diversa interpretazione del petitum ed è inammissibile.
Infatti, l’oggetto del processo riguarda la sussistenza del nesso
eziologico tra le sofferenze patite e la condotta truffaldina (non già
il nesso tra il decesso e il comportamento del ricorrente). Gli ermellini
confermano che il danno patito dai familiari costituisca un danno iure
proprio per le sofferenze patite in seguito all’affidamento mal
riposto nel miglioramento del congiunto e un pregiudizio iure
hereditatis derivante dall’alterazione della libertà di
determinazione, ossia il diritto di intraprendere delle scelte per sé e la
propria vita, in completa libertà e piena autoresponsabilità. Nella
quantificazione del danno, i giudici di merito, correttamente, hanno
valutato la condotta e le modalità subdole con cui il medico
ha sfruttato la soggezione emotiva di fronte alla diagnosi
infausta, la profonda frustrazione dei familiari derivante dalle assicurazioni
di guarigione e, infine, la circostanza che il ricorrente abbia indotto il
malato ad abbandonare la chemioterapia e l’assunzione di morfina, la quale, se
proseguita, avrebbe quantomeno lenito il dolore derivante dall’ingravescenza
della malattia.
La vicenda
Un uomo riceve la diagnosi di un tumore incurabile ai polmoni e viene
sottoposto a chemioterapia nonché al trattamento con la morfina. I suoi figli
si rivolgono ad un medico che, a sua volta, consiglia loro un altro medico.
Quest’ultimo propone di abbandonare la cura intrapresa (ossia la terapia
chemioterapica e la morfina) a favore di una cura alternativa fondata sulla
somministrazione di un farmaco. Dal momento che la cura non sortisce alcun
miglioramento, il medico integra la somministrazione via endovena, assicurando
la guarigione, invece, il paziente perde la vita. La moglie e i figli
dell’uomo evocano in giudizio i due medici al fine di vederli condannare al
risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti. In particolare,
gli attori si dolgono del fatto che i convenuti abbiano sfruttato la loro
condizione di debolezza ingenerando la falsa speranza della guarigione
del loro congiunto per trarne un profitto. I familiari del malato agiscono
contro il medico anche in sede penale ove lo stesso viene condannato ex art. 444 c.p.p. per i reati di
associazione per delinquere, esercizio abusivo dell’attività di biochimico
farmaceutico, commercio di medicinali senza autorizzazione e, infine, per
truffa in concorso con il primo medico.
In primo e secondo grado, i convenuti sono condannati al pagamento del
danno patrimoniale pari a 500,00 euro (ossia il costo del medicinale) e al
pagamento di 25 mila euro a favore di ciascuno degli attori a titolo di danno
non patrimoniale. Secondo il giudice d’appello, l’oggetto del processo riguarda
la sussistenza del nesso eziologico tra le sofferenze patite e la
condotta truffaldina (non già il nesso tra il decesso e il
comportamento dei convenuti). Inoltre, il danno patito dai familiari è sia un
danno iure proprio per le sofferenze patite in seguito
all’affidamento riposto nel miglioramento del congiunto sia un
pregiudizio iure hereditatis derivante dalla lesione del
diritto all’autodeterminazione del defunto.
Si giunge così in Cassazione.
L’interpretazione
del contenuto della domanda è sindacabile in sede di legittimità in casi
specifici
Il ricorrente lamenta che la decisione gravata lo abbia condannato al
risarcimento del danno benché sia stato ritenuto insussistente il nesso
eziologico tra la sua condotta illecita e la morte del malato.
La Suprema Corte ritiene inammissibile la doglianza, in
quanto con il motivo di ricorso il medico ha inteso sindacare l’interpretazione
del contenuto della domanda giudiziale operata dal giudice di merito. La
decisione gravata, infatti, ha ritenuto che il petitum riguardi
il rapporto tra la sofferenza patita dai familiari nonché dal loro congiunto e
la condotta truffaldina del ricorrente. Gli ermellini ricordano che
l’interpretazione del contenuto della domanda può costituire oggetto di
sindacato in tre ipotesi:
a) quando si risolva in un vizio di nullità processuale,
b) qualora comporti un vizio nel ragionamento logico decisorio,
c) quando si traduca in un errore che coinvolge la qualificazione
giuridica dei fatti allegati nell’atto introduttivo o l’omessa rilevazione di
un fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo1.
La censura del ricorrente, però, non riguarda nessuna di queste tre ipotesi
e, pertanto, è inammissibile. Egli lamentando l’assenza del nesso causale tra
il decesso del paziente e la propria condotta illecita intende ricondurre i
fatti nell’ambito della sola domanda risarcitoria sollevata iure
proprio dagli attori per la perdita del rapporto parentale. In tal
caso, infatti, è necessario che la morte della vittima sia causalmente
riconducibile alla condotta illecita del terzo. In buona sostanza, il
ricorrente propone un’interpretazione della domanda giudiziale alternativa
rispetto a quella effettuata dal giudice di merito. Invero, la corte
territoriale ha individuato il petitum nel nesso di causalità
esistente tra la condotta truffaldina del ricorrente e l’alterazione
della libertà di determinazione della vittima. La suddetta alterazione ha
provocato sofferenze sia al malato che ai congiunti, ingenerando l’affidamento
nell’efficacia della cura. Il mentovato giudizio è insindacabile in sede di
legittimità atteso che fuoriesce dalle tre ipotesi summenzionate.
Il diritto di
intraprendere scelte per la propria vita in piena autoresponsabilità
Prima di analizzare il decisum ricordiamo brevemente in
cosa consiste il diritto all’autodeterminazione. Si tratta diritto ad
intraprendere, in libertà e consapevole autoresponsabilità, scelte per sé e la
propria esistenza.
Il caso più ricorrente di lesione di tale diritto riguarda le omesse
informazioni da parte del medico (Cass. 23328/2019) ove, a causa
del deficit informativo, il paziente non viene messo in
condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole
delle sue implicazioni. Giova ricordare che ogni paziente ha diritto di
ricevere un’informazione dettagliata e adeguata sulle conseguenze
dell'intervento medico a cui si sottopone o della cura che intraprende. In tal
guisa, il soggetto decide con consapevolezza di sottoporsi ad una terapia o ad
un esame clinico per eliminare uno stato patologico preesistente o per
prevenire una patologia o un aggravamento. La violazione dell’obbligo
informativo – gravante sul medico – può determinare un duplice nocumento: una
lesione del principio di autodeterminazione e un danno alla salute. Si ricorda
che il diritto all’autodeterminazione è connesso ma distinto dal diritto
alla salute (Cass. 26104/2022).
Un’altra ipotesi di lesione del diritto di autodeterminarsi riguarda
il ritardo diagnostico di una malattia ad esito infausto che
comporta la violazione del diritto del paziente di determinarsi liberamente
nella scelta dei propri percorsi esistenziali, «una situazione soggettiva
che deve ritenersi fatalmente e direttamente violata dal colpevole ritardo
diagnostico della patologia ad esito certamente infausto di cui si sia reso
autore il sanitario chiamato a risponderne» (Cass. 7260/2018).
Nel caso di specie, la condotta truffaldina del medico, che ha assicurato
la guarigione dalla patologia grazie all’assunzione di un solo farmaco pur
essendo consapevole della incurabilità della malattia, ha leso il diritto
all’autodeterminazione del malato, il quale, mal riponendo la propria fiducia
nelle rassicurazioni del professionista, ha abbandonato la terapia
chemioterapica e l’assunzione di morfina che, quantomeno, avrebbe potuto lenire
il dolore.
Falsa speranza
di guarigione per profitto: leso il diritto all’autodeterminazione
Il giudice d’appello ha posto a fondamento del danno la lesione del diritto
all’autodeterminazione del malato. Ut supra ricordato, si
tratta del diritto di intraprendere delle scelte per sé e la propria vita, in
completa libertà e piena autoresponsabilità, in assenza di ingerenze da parte
di condotte di soggetti terzi. Dalla lesione del diritto all’autodeterminazione
possono derivare
- danni
patrimoniali (lesione del diritto all’autodeterminazione negoziale)
- e danni
non patrimoniali (sofferenze soggettive e limitazione della libertà di
disporre di sé stessi).
Siffatti pregiudizi, salva prova contraria, vanno risarciti. La
giurisprudenza si è pronunciata sulla lesione del diritto
all’autodeterminazione principalmente con riguardo ai casi di omessa diagnosi
tempestivain caso di malattie oncologiche ad esito infausto. In tali
fattispecie, il pregiudizio consiste nella perdita di un bene reale e certo
come il diritto di decidere liberamente il proprio percorso di vita (Cass. 7260/2018). In buona sostanza, è
autonomamente risarcibile la “perditadel ventaglio di opzioni tra le
quali il paziente ha diritto di scegliere dinanzi alla
prospettiva di un exitus imminente”. Ad esempio, la ricerca e la scelta di
una determinata terapia oppure l’accettazione della fine senza ricorrere ad
alcun intervento medico. Tutte queste scelte appartengono al singolo (Cass.
7260/2018; Cass. 10423/2019).
Sì al
risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale
I giudici di legittimità ritengono che la decisione gravata abbia
correttamente ritenuto risarcibile il danno per lesione del diritto
all’autodeterminazione. In particolare, gli attori hanno patito un danno non
patrimoniale:
- iure
proprio per
la sofferenza morale e la disperazione conseguente all’affidamento
nell’efficacia curativa della terapia,
- iure
hereditatis per
l’alterazione delle scelte personali del malato effettuate in prossimità
della fine della propria vita.
Nella quantificazione del danno, la sentenza gravata ha considerato:
- la grave
condotta con cui il medico ha approfittato del malato e dei suoi familiari
sfruttando la soggezione emotiva di fronte alla diagnosi infausta;
- le
modalità subdole con cui è stata protratta la condotta illecita (ad
esempio, con la somministrazione via endovena nelle ultime fasi della
malattia),
- il senso
di profonda frustrazione scaturente dalle assicurazioni di guarigione,
- l’interruzione
della terapia (chemioterapia e assunzione di morfina) operata su
indicazione del convenuto che, se proseguita, avrebbe quantomeno lenito il
dolore derivante dall’ingravescenza della malattia.
Secondo il giudice di merito, quelle suesposte sono le conseguenze patite
dagli eredi sia in proprio che in via successoria e rientrano nell’alveo dei
danni derivanti dalla lesione del diritto all’autodeterminazione individuato «come
perno del petitum prima, in sede di interpretazione della domanda giudiziale, e
del processo, poi».
Le prove
acquisite nel processo penale valgono come argomento di prova
Tra le varie censure, l ricorrente lamenta il fatto che la decisione
gravata abbia fondato la sussistenza della responsabilità sulla base delle
prove acquisite nel processo penale conclusosi con una sentenza di applicazione
della pena su richiesta di parte (il cosiddetto patteggiamento).
Secondo la Cassazione la doglianza è infondata, in quanto la sentenza
impugnata, correttamente, ha attribuito alle prove acquisite nel procedimento
penale il valore di argomenti di prova (Cass. 12973/2020; Cass. 2897/2024).
I giudici hanno considerato alcuni elementi derivanti dal giudizio penale ma
essi hanno costituito solo una parte della più ampia valutazione del giudizio
di responsabilità a cui hanno contribuito le stesse affermazioni
dell’appellante rese nel giudizio civile. In particolare, sono state rilevanti
ai fini dell’accertamento della condotta illecita le dichiarazioni del
ricorrente che, da una parte, ha sostenuto che il medicinale somministrato al
malato non fosse un farmaco ma un integratore e, dall’altra, che la malattia si
trovava in uno stato troppo avanzato affinché il medicinale sortisse effetto.
Questi elementi sono stato utilizzati per corroborare la tesi del comportamento
manipolatorio e dei raggiri operati ai danni dalla famiglia.
Ciò posto, la decisione gravata si è limitata a richiamare il contenuto di
atti e prove acquisiti nel giudizio penale solo per ricostruire la condotta
illecita del medico e non ha fondato la sussistenza dell’illecito civile
sull’esito del giudizio penale.
Conclusioni:
rigettato il ricorso del medico
Per tutte le ragioni di cui sopra, la Suprema Corte rigetta il ricorso del
medico e ricorda che:
- «[…] la
situazione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento - posta dal
secondo giudice fondamento del danno evento asseritamente leso dalla
condotta illecita - è il diritto all'autodeterminazione, quale diritto
ad intraprendere, in libertà e consapevole autoresponsabilità, scelte per
sé e la propria esistenza in assenza di qualsiasi alterazione o
interferenza da parte di condotte riconducibili a soggetti terzi; là dove
da tale lesione siano dunque derivate conseguenze dannose di natura
patrimoniale (lesione del diritto alla autodeterminazione negoziale)
ovvero di natura non patrimoniale (quai sofferenze soggettive e
limitazione della libertà di disporre di se stessi) esse non
potranno che essere risarcite, salva pur sempre la prova contraria»
Infine, i giudici danno atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso ex art. 13 comma 1-bis DPR 115/2002.
https://www.altalex.com/documents/news/2024/11/06/morte-malato-raggirato-persuaso-seguire-terapia-alternativa-risarciti-familiari
Fonte: Wolters Kluwer - Altalex