«In relazione al delitto ex art. 593-ter, comma 1,
c.p., si verte in tema di reato comune di evento, per il quale è richiesto il
dolo generico di cagionare l’interruzione della gravidanza in assenza del
consenso della donna».
Cass. pen., sez. V, ud. 2 febbraio 2024 (dep. 16 maggio 2024), n. 19596
Non abbondando le pronunce della Suprema Corte sul
reato di interruzione di gravidanza non consensuale; tuttavia, con la sentenza
in commento, la Cassazione traccia un importante solco ermeneutico sul tema
dell'elemento soggettivo e della prova della
volontà della donna in sede di aborto. L'assenza di consenso,
allorquando estorto con violenza, minaccia o carpito con l'inganno, deve
sostanziarsi in un'attenta indagine della volontà della gestante al momento in
cui l'intervento abortivo viene eseguito, avendo rilievo anche gli eventi
anteriori e successivi all'interruzione della gravidanza.
I fatti
La Corte di Appello di Ancona, in parziale riforma
alla pronuncia di primo grado, riteneva insussistenti i fatti contestati
integranti il delitto di cui all'art. 593-ter c.p. commessi
dell'imputato nell'estate 2015 e nell' aprile 2017, confermava invece la
sussistenza del delitto de quo per un terzo episodio avvenuto
nel giugno 2018. Veniva altresì riconfermata la penale responsabilità
dell'imputato in ordine agli ulteriori delitti di lesioni personali, atti
persecutori e violenza privata avvinti dal vincolo di cui all'art. 81, comma 2, c.p.
Il ricorso per
Cassazione
L'imputato a mezzo del proprio difensore presentava
ricorso per cassazione lamentandosi del vizio di motivazione in ordine al
delitto di interruzione di gravidanza non consensuale. L'identità del materiale
probatorio posto a fondamento della originaria triplice contestazione di cui
all'art. 593-ter c.p. avrebbe dovuto orientare la Corte
territoriale ad una pronuncia assolutoria per tutti gli episodi delittuosi. E
in ogni caso, a dire del ricorrente, l'interruzione della gravidanza avvenuta
nel giugno 2018 si realizzava in forza di una libera volontà della persona
offesa, poiché animata dal desiderio di liberarsi da ogni rapporto con
l'imputato. Lamentava altresì la reciprocità delle condotte persecutorie tali
da escludere l'integrazione del medesimo delitto in capo al ricorrente, il
difetto di motivazione in ordine al reato di violenza privata nonché l'assenza
di evidenze probatorie al delitto di lesioni.
Gli elementi
costitutivi del delitto di cui all'art. 583-ter c.p.
La Suprema Corte dichiarava inammissibile il ricorso.
Dopo aver ripercorso gli elementi probatori da cui si evinceva l'intensità
persecutoria e maltrattante dell'azione delittuosa dell'imputato nonchè le
minacce proferite dallo stesso volte a far interrompere la gravidanza della
persona offesa, vengono delineati i principi cardine del delitto di cui
all'art. 583 ter c.p. La Corte individua i beni giuridici
oggetto di tutela; da un lato risiede infatti il diritto all'integrità
fisica nonché il diritto alla generazione della
madre, dall'altro i diritti in capo al futuro nascituro.
Reato comune,
reato di evento e dolo generico
Viene altresì chiarita la natura di “reato comune”
del delitto di cui all'art. 583-ter c.p. dal momento che l'azione
criminosa può essere commessa da chiunque sia nel caso in cui venga cagionata
l'interruzione della gravidanza in assenza di consenso della donna, sia anche
quando lo stesso venga estorto tramite violenza o minaccia, ovvero carpito con
inganno. E in ogni caso, trattasi comunque di reato di
“evento” «per il quale è richiesto il dolo generico di cagionare
l'interruzione della gravidanza in assenza del consenso della donna».
La prova della
volontà abortiva della donna
La Cassazione sottolinea la centralità della
formazione della volontà della donna al momento dell'intervento abortivo;
pertanto, la valutazione delle risultanze probatorie deve sostanziarsi in una
verifica dell'esistenza o meno del consenso avendo rilievo gli eventi anteriori
e successivi all'interruzione di gravidanza. In questa
prospettiva si comprende come la genericità del dolo dell'imputato indirizzata
alla eterodeterminazione della persona offesa sulla propria volontà abortiva
sia ritenuta più che sufficiente ai fini dell'integrazione dell'elemento
soggettivo.
Gli “eventi
antecedenti e successivi” nel caso di specie
L'interpretazione dei fatti oggetto di giudizio
fornite dal ricorrente, diametralmente opposta alle determinazioni della
Suprema Corte, a una prima lettura sembrerebbe suggestionare l'impenetrabilità
della volontà abortiva della persona offesa. Come se non si possa conoscere con
certezza l'origine del consenso della donna, laddove questo sia il frutto della
libera scelta di troncare ogni rapporto con il proprio partner o, al contrario,
sia stato determinato tramite violenza o minaccia. La Corte però fuga ogni
dubbio, citando le violente condotte persecutorie subite dalla persona offesa
che subiva la «minaccia implicita quella di promettere la libertà alla donna
dalla relazione e dalla persecuzione connessa, solo in caso di intervenuta
interruzione di gravidanza, in quanto nel caso contrario tale libertà non
sarebbe stata riguadagnata. La ‘promessa' sarebbe stata poi comunque disattesa,
da parte dell'imputato» al punto che, a seguito dell'intervento abortivo, la
stessa persona offesa avrebbe tentato il suicidio.
Sulla
reciprocità delle condotte persecutorie
La sentenza rigetta le doglianze difensive in ordine
alla mancata realizzazione del reato di stalking per
reciprocità delle condotte persecutorie. Preliminarmente la Corte chiarisce
come il rapporto tra l'imputato e la persona offesa non possa dirsi paritario
stante la personalità del reo che viene definita come «egemonica, vessatoria e
dispotica” allorquando “consentiva alla donna solo in alcune occasioni di
reagire a propria difesa». Viene poi richiamato quel filone giurisprudenziale -
rappresentato da Cass. n. 42643/2021 - che esclude
ogni valore scriminante alla reciprocità delle condotte persecutorie ma
che tuttalpiù aggrava l'onere motivazionale del giudice sulla sussistenza
dell'evento dannoso, lo stato di ansia o di paura della vittima.
Sulla
rilevabilità d'ufficio della prescrizione del reato
Infine, la Cassazione si occupa della richiesta
avanzata dalla Procura generale che richiedeva l'annullamento senza rinvio del
provvedimento impugnato per intervenuta prescrizione del delitto di lesioni
personali e la conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio. La
Corte, sulla scorta dei corollari già sanciti dalle Sezioni Unite (Cass. n. 12602/2015), rigetta
le istanze della Pubblica Accusa ribandendo come sia precluso al
Giudice di legittimità rilevare d'ufficio la prescrizione del reato non
rilevata in sede di appello né eccepita in quella sede né dedotta con i motivi
di ricorso.
Il “promemoria” della Suprema Corte al summenzionato
indirizzo ermeneutico della Cassazione lascia auspicare la celere approvazione
della proposta di legge n. 1120 assegnata il 26/6/2023 alla Commissione
Giustizia della Camera recante «Modifiche agli articoli 610 e 615 del codice di procedura penale in
materia di declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione
nel giudizio di cassazione». Riforma legislativa che per certo sopperirà alle
esigenze di giustizia e di celerità, nonché allo stesso principio favor
rei sull'ingiusta permanenza del giudizio.
Cass. pen., sez. V, ud. 2 febbraio
2024 (dep. 16 maggio 2024), n. 19596
Presidente Pezzullo – Relatore Cananzi
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Ancona, con la sentenza
emessa il 13 gennaio 2023, riformava parzialmente quella del G.u.p. del
Tribunale di Ascoli Piceno del 23 luglio 2020. Difatti la Corte territoriale
riteneva insussistenti i fatti contestati a E.H. integranti il delitto di
interruzione di gravidanza non consensuale ex art. 593-ter cod. pen. (capo C)
commessi nell'estate del (omissis) e il (omissis), mentre
confermava la sussistenza dell'episodio del (omissis), come anche delle
lesioni personali aggravate commesse il (omissis) e il (omissis),
ribadendo la responsabilità penale anche quanto alle residue lesioni personali
contestate al capo D).
Veniva anche confermata la responsabilità
dell'imputato in ordine al delitto di atti persecutori aggravato (capo A) e di
violenza privata (capo B).
2. Il ricorso per cassazione proposto nell'interesse
di E.H. consta di quattro motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari
per la motivazione, secondo quanto disposto dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3. Il primo motivo deduce violazione di legge e vizio
di motivazione in relazione al residuo delitto di interruzione di gravidanza
non consensuale.
Lamenta il ricorrente l'identità del materiale
probatorio posto alla base delle tre condotte in origine contestate - in
relazione alle minacce - dal che in modo illogico la Corte di appello avrebbe
ritenuto di escludere la responsabilità per due episodi e non anche per il
terzo.
Non avrebbe tenuto in conto, la Corte territoriale,
come desiderio della donna fosse quello di liberarsi del rapporto con
l'imputato e che la stessa non era stata costretta all'aborto: non determinanti
risultavano a riguardo le dichiarazioni dei testimoni, presenti in relazione a
tutte e tre gli episodi contestati, né la messaggistica whatsapp, che anzi
dimostrava l'assenza di minacce e di contatti fra imputato e persona offesa,
nel periodo a ridosso dell'intervento abortivo, del quale era ignaro l'imputato.
4. Il secondo motivo lamenta violazione di legge e
vizio di motivazione in ordine al delitto di atti persecutori, risultando dal
compendio probatorio valutato dalla Corte di appello la reciprocità delle
condotte, in una dinamica paritaria anche per la gelosia. Inoltre, la Corte
territoriale avrebbe omesso la verifica dell'attendibilità della persona
offesa, non risultando adeguati quale riscontro i soli episodi occasionali
riferiti dai congiunti della persona offesa.
Anche la sussistenza del delitto di violenza privata
risulterebbe, oltre che per le ragioni espresse, illogicamente motivata, non
essendovi riferimento alcuno alla condotta come contestata nell'imputazione
nella sentenza impugnata.
5. Il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio
di motivazione in ordine al delitto di lesione personale, in quanto quella
contestata e ritenuta sussistente in data 22 febbraio 2016 è una tumefazione
che viene refertata senza prognosi, quindi non tale da integrare malattia,
oltre che richiedente una analitica verifica di attendibilità, essendo la
persona offesa in quel momento soggetta a maltrattamenti fisici da parte del
fratello.
6. Il quarto motivo lamenta vizio di motivazione in
ordine al trattamento sanzionatorio, in particolare per il mancato
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche - confermato pur a fronte
del venire meno della responsabilità per alcune condotte - e per la
determinazione degli aumenti per la continuazione, pure vanamente oggetto di
censura in appello.
7. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto
Procuratore generale dott.ssa Paola Mastroberardino, ha depositato requisitoria
e conclusioni scritte - ai sensi dell'art. 23 comma 8, d.l. 127 del 2020 - con
le quali ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso in quanto il primo
motivo risulterebbe manifestamente infondato, gli altri non consentiti,
dovendosi solo annullare la sentenza dichiarando l'estinzione del delitto di
lesioni personali commesso nel febbraio 2015, in quanto il termine di prescrizione
risulterebbe scaduto prima della sentenza di appello, con rideterminazione del
trattamento sanzionatorio.
8. Il ricorso è stato trattato senza intervento delle
parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020,
disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 105 del 2021, la cui
vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti
entro il 30 giugno 2023 dall'articolo 94 del decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 5-duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162,
convertito con modificazioni dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199, nonché entro il
30 giugno 2024 ai sensi dell'art. 11, comma 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 23 febbraio 2024, n. 18.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. In ordine al primo motivo di ricorso, la sentenza
impugnata risulta non viziata da violazione di legge e vizio di motivazione.
2.1 Quanto al profilo della incoerenza fra la
decisione di assoluzione per i primi due episodi di interruzione della
gravidanza rispetto al terzo, la Corte di appello chiarisce senza aporie
logiche, alle pagine da 18 a 22 de la sentenza ora impugnata, come diverso sia
il quadro probatorio in ordine al terzo episodio rispetto ai primi due, per i
quali non era stata raggiunta la prova della responsabilità.
La Corte di appello ritiene senza manifesta illogicità
che sia comprovata la responsabilità penale di E.H., conseguente alla relazione
extraconiugale dell'imputato, sposato e padre di tre figli, con la persona
offesa: nel terzo episodio di interruzione di gravidanza, l'imputato risulta
latore di minacce tese a far abortire la persona offesa. Ciò emerge dal narrato
di quest'ultima, rifluito anche nella registrazione operata a sua insaputa da
una amica in ospedale, dove la donna era stata ricoverata per un tentato
suicidio dopo il terzo aborto. Altre emergenze ritenute convergenti risultano
individuate dai giudici del merito nelle testimonianze provenienti non solo da
congiunti ma anche dalla amica, quindi estranea allo stretto nucleo familiare.
Nel terzo episodio, osserva la Corte territoriale, si
registrava di fatto una maggiore e più certa intensità minatoria della condotta
dell'imputato, comprovata da plurimi anni di relazione sentimentale connotata
da maltrattamenti (gli altri due episodi di interruzione di gravidanza erano
precedenti), oltre che dallo stato di profonda prostrazione della donna, che
voleva tenere il bambino ma temeva per la propria incolumità, tanto da avergli
garantito l'imputato che dopo l'interruzione di gravidanza l'avrebbe lasciata
libera, evento poi non verificatosi.
La riprova dello stato di soggezione e della
preoccupazione concreta della donna per la propria incolumità e
dell'interruzione di gravidanza come conseguenza della minaccia, anche nella
forma della induzione, in quanto se non l'avesse praticata l'uomo l'avrebbe
continuata a perseguitare, emergeva anche dalla circostanza che la persona
offesa V. - sottoposta all'imputato come dimostrato dalla responsabilità anche
per il delitto di atti persecutori - non essendosi liberata dalla relazione con
H.E. nonostante la promessa, dopo pochi mesi avrebbe tentato il suicidio.
La ricostruzione operata dalla Corte territoriale è
attenta e non manifestamente illogica e né contraddittoria, se è vero, come
rileva la Corte, che sia per il progredire dell'azione persecutoria nel corso
degli anni, sia anche per l'esistenza di riscontri rispetto alle minacce
esplicite subite dalla V., quest'ultima fosse stata costretta con minaccia ad
abortire, e ciò nonostante la disponibilità dei familiari a sostenerla in caso
di nascita del bambino e ben sapendo che il terzo aborto ne avrebbe messo in
pericolo la possibilità di generare per il futuro, come la stessa persona
offesa confida all'amica nella conversazione registrata a sua insaputa.
2.2 A ben vedere l'art. 593-ter cod. pen. è stato inserito
nel Capo I-bis relativo ai «delitti contro la maternità», inseriti nel Titolo
XII, riguardante i delitti contro la persona, del Libro II, ai sensi dell'art.
2, comma 1, lett. e) d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, che prevedeva le disposizioni
di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia
penale a norma dell'articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno
2017, n. 103.
L'art. 593-ter cod. pen. riproduce, quindi,
il testo dell'art. 18 l. 22 maggio 1978, n. 194, a sua volta
abrogato dall'art. 7 del d.lgs. 21/2018.
Nella relazione allo schema di decreto legislativo
emerge come la volontà del legislatore sia quella di assicurare una tutela
rafforzata a due soggetti deboli: la donna, con riguardo alla sua integrità
fisica e il suo diritto alla generazione, e al nascituro.
L'interruzione di gravidanza consensuale, ma illecita
perché realizzata in assenza delle condizioni previste dalla legge, ex art. 19 l. 194 del 1978, è rimasta nella
legge speciale, in quanto vede responsabile anche la donna e persona offesa
solo il concepito. Diversamente nel caso di interruzione di gravidanza non
consensuale ex art. 593-ter cod. pen., come anche nel caso
colposo ex art. 592-bis cod. pen., i soggetti tutelati sono la madre, con il
proprio diritto alla salute e alla generazione, in tali casi non consenziente
all'interruzione di gravidanza, oltre che il nascituro.
L'art. 593-ter cod. pen. configura un reato
comune, che può essere commesso da "chiunque" e che rileva sia nel
caso in cui venga cagionata l'interruzione della gravidanza in assenza di
consenso della donna, sia anche nel caso in cui il consenso sia insussistente perché
invalido, in quanto estorto con la violenza o la minaccia, oppure carpito con
l'inganno.
Nel caso in esame correttamente la Corte territoriale
ha ritenuto che le minacce poste in essere abbiano escluso il consenso della
donna, la quale certamente si è recata ad interrompere la gravidanza senza una
costrizione fisica, ma eterodeterminata a riguardo dal timore di ulteriori atti
persecutori, già comprovati da quelli posti in essere da tempo dal compagno:
d'altro canto, costituisce anche minaccia implicita quella di promettere la
libertà alla donna dalla relazione e dalla persecuzione connessa, solo in caso
di intervenuta interruzione di gravidanza, in quanto nel caso contrario tale
libertà non sarebbe stata riguadagnata. La 'promessa' sarebbe stata poi
comunque disattesa, da parte dell'imputato.
E bene la ricostruzione operata dalla Corte di appello
risulta in linea con il principio per cui il consenso debba essere verificato
al momento in cui viene effettuato l'intervento di interruzione della
gravidanza (cfr. Sez. 3, n. 8079 del 12/05/1994, Carbone, Rv. 200118 - 01): gli
elementi analizzati dalla Corte territoriale prima e dopo l'evento del reato,
come il successivo tentato suicidio, dimostrano l'assenza di consenso al
momento dell'intervento. Tale difetto di consenso e la correlata coartazione non
risultava, secondo la Corte di merito, analogamente accertata in relazione ai
precedenti due aborti, verificatisi «in una fase del rapporto in cui le facoltà
volitive e decisorie della donna, ancorché sottoposta a costanti maltrattamenti
fisici e verbali, si presume che avessero conservato dei margini di integrità
tali da non sottoporla a una vera e propria coartazione» (fol. 18 della
sentenza impugnata).
Tale attenta indagine della Corte di appello si
correla correttamente, dunque, al momento specifico delle singole interruzioni
di gravidanza, riscontrando in modo non illogico una narrazione più ricca e
dettagliata della persona offesa e molteplici elementi di riscontro non solo
narrativi ma anche documentali, quali la citata registrazione, che sono propri
solo del terzo episodio e non anche dei primi due. Né emergono elementi - a
fronte di una condotta univoca dell'imputato, oppressiva e persecutoria, oltre
che nello specifico diretta a etero-determinare la persona offesa in ordine
alla interruzione di gravidanza - che escludano il dolo generico richiesto.
2.3 Pertanto può affermarsi il principio per cui, in
relazione al delitto ex art. 593-ter, comma 1, cod. pen., si verte
in tema di reato comune di evento, per il quale è richiesto il dolo generico di
cagionare l'interruzione della gravidanza in assenza del consenso della donna.
L'assenza di consenso, perché estorto con violenza, minaccia o carpito con
l'inganno, deve sostanziarsi in una verifica della volontà della donna e
dell'esistenza o meno del consenso rispetto al momento in cui l'intervento
viene eseguito, cosicché in tale prospettiva hanno rilievo gli eventi anteriori
e successivi all'intervento medesimo.
2.4 A fronte di tale completa motivazione, il motivo
di ricorso risulta sostanzialmente reiterativo di quello di appello e non si
confronta con la sentenza impugnata: quanto alle modalità di comunicazione fra
l'imputato e la persona offesa, la Corte territoriale indicava l'utilizzo di
altre piattaforme di comunicazione tra l'imputato e la persona offesa, oltre
whatsapp, documentato al fol. 19 della sentenza, tanto più che l'imputato e la
V. si incontrarono il giorno prima dell'aborto; né si confronta, il motivo, con
una rinnovata valutazione di attendibilità della persona offesa, operata dalla
Corte di appello con esito positivo, in conformità a quella operata già dalla
sentenza di primo grado. Da ciò deriva l'aspecificità della doglianza.
D'altro canto, la Corte territoriale fa buon governo,
in modo attento, tanto da escludere la sussistenza delle due condotte di
interruzione di gravidanza non consensuali per difetto di riscontri, come
anticipato, del principio consolidato e autorevole per cui le regole dettate
dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non
si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere
legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale
responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione,
della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca
del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e
rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi
testimone (in motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui
la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno
procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi - Sez. U, n.
41461 del 19/07/2012 - dep. 24/10/2012, Bell'Arte ed altri, Rv. 253214).
E, come osserva correttamente la Procura generale, il
motivo è anche non decisivo nella parte in cui fa leva sulla circostanza,
trascurata dalla Corte territoriale secondo il ricorrente, per cui non avendo
la donna mai usato metodi anticoncezionali, confidando di non restare incinta,
non intendesse portare a termine la gravidanza: l'argomentazione non comprova,
neanche logicamente, che una volta rimasta incinta la persona offesa volesse
automaticamente abortire, il che anzi viene smentito dall'insieme delle
risultante analizzate dalla sentenza impugnata.
Ne consegue la genericità e la non manifesta
infondatezza del primo motivo.
3. Il secondo e terzo motivo di ricorso vanno trattati
congiuntamente in quanto generici.
A ben vedere è inammissibile il ricorso per cassazione
fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che
ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice
del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le
argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento
dell'impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo,
Rv. 253849). Tale è anche il ricorso con al più l'aggiunta di espressioni che
contestino, in termini meramente assertivi ed apodittici, la correttezza della
sentenza impugnata, laddove difettino di una critica puntuale al provvedimento
e non prendano in considerazione, per confutarle in fatto e/o in diritto, le
argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non sono stati accolti
(Sez. 6 n. 23014 del 29/04/2021, B., Rv. 281521).
Nel caso in esame, quanto al delitto di atti
persecutori, l'ampia motivazione impugnata rende conto di come il tentativo di
suicidio messo in atto dalla persona offesa, la testimonianza del padre della
stessa, la condotta complessivamente emersa in ragione della attendibilità
delle dichiarazioni, della persona offesa e delle testimonianze a riscontro,
abbiano dato atto del verificarsi degli eventi propri del delitto di atti
persecutori, nella forma del forte stato di ansia e del turbamento emotivo
(fol. 13 della sentenza), temendo la donna per sé e per i suoi congiunti.
Con tale motivazione non si confronta il ricorso, che
anche elude la motivazione offerta dalla Corte territoriale che esclude la
reciprocità e la natura paritaria nel rapporto sentimentale, reciprocità per
altro smentita anche dalle narrazioni della cugina della persona offesa, e del
di lei marito, in ordine a due episodi di umiliazioni e violenza fisica subiti
dalla V. per mano dell'imputato, la cui personalità, egemonica, vessatoria e
dispotica, secondo la Corte di appello, consentiva alla donna solo in alcune
occasioni di reagire a propria difesa, tanto più che l'imputato l'aveva sempre
più isolata dal contesto familiare, lasciandola in balia di se stesso.
D'altro canto, anche la dedotta reciprocità dei
comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti
persecutori, incombendo, in tali ipotesi, sul giudice un più accurato onere di
motivazione in ordine alla sussistenza dell'evento di danno, ossia dello stato
d'ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per
l'incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del
mutamento delle abitudini di vita (Sez. 5, n. 42643 del 24/06/2021, A., Rv. 282170
- 01), onere nel caso in esame assolto.
Comunque, il secondo motivo, oltre a non confrontarsi
con la circostanza che la Corte di appello abbia escluso la natura paritaria
della relazione, anche, quanto al delitto di violenza privata, trascura la
circostanza che H.E. al momento dell'arresto si liberò di un telefono cellulare
sul quale deteneva i video e le foto con i quali minacciava la donna, affinché
non interrompesse la relazione (fol. 17).
Sul punto il motivo è aspecifico, anche perché non
tiene in conto quanto riportato dalla sentenza di primo grado in ordine al
rinvenimento nel personal computer dell'imputato di video e foto relativi ai
rapporti sessuali fra i due e della minaccia contenuta in un messaggio del 2
agosto 2018 (fol. 19 sentenza di primo grado).
Inoltre, deve evidenziarsi, come prospettato dalla
Procura generale, che in tema di prove, la valutazione della credibilità della
persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non
può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso
in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013 - dep. 08/10/2013,
Terrusa, Rv. 257241), il che nel caso in esame non è.
Quanto al terzo motivo, lo stesso è versato in fatto,
oltre a essere generico: per le lesioni personali commesse in data (omissis)
risulta esservi un riscontro al narrato della persona offesa consistente nel
referto medico, quanto alla diagnosi di una piccola tumefazione laterocervicale
destra.
A riguardo, argomentata è la esclusione del reato per
altre due lesioni contestate. Tale differenza fra i diversi episodi emerge in
modo non manifestamente illogico.
Per altro, anche corretta è l'attribuzione di rilievo
penale alla tumefazione, che consiste in un gonfiore e che certamente integra
malattia, che si sostanzia in qualsiasi alterazione anatomica o funzionale
dell'organismo, ancorché localizzata, di lieve entità e non influente sulle
condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando
sia in atto il suddetto processo di alterazione, il che era ancora al momento
del referto (Sez. 5, n. 43763 del 29/09/2010, Adamo, Rv. 248778 - 01, fattispecie
relativa ad escoriazioni).
I motivi sono quindi generici e manifestamente
infondati.
4. Il quarto motivo lamenta vizio di motivazione in
ordine al trattamento sanzionatorio: la Corte territoriale argomenta
diffusamente quanto alla gravità dei fatti e alla molteplicità delle condotte
poste in essere dall'imputato, all'entità del danno alla persona offesa
provocato, come anche in ordine ai precedenti penali e all'assenza di
resipiscenza, convalidata anche dopo l'arresto, in quanto in una conversazione
l'imputato si rammaricava di non aver ucciso la donna.
Si tratta di elementi che, per un verso, giustificano
la misura della pena, per altro verso integrano motivazioni adeguate a sostegno
sia degli aumenti per la continuazione, che per il mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche, confermato pur a fronte del venire meno della
responsabilità per alcune condotte.
Quanto agli aumenti di pena, va evidenziato come sul
punto la censura sia generica e deve, per altro, rilevarsi come l'obbligo
motivazionale in tema di incrementi di pena per la continuazione può esser
assolto in modo plurimo.
Sul punto basti qui richiamare Sez. U, n. 47127 del
24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269, che ha fissato il seguente principio di
diritto: "ove riconosca la continuazione tra reati, ai sensi dell'art. 81 cod. pen., il giudice, nel determinare
la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la
pena base per tale reato, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in
modo distinto per ognuno dei reati satellite".
La Corte di appello, nel caso che occupa, ha distinto
i singoli aumenti per ogni reato satellite e, soprattutto, ha rispettato i
parametri individuati da Sez. U., Pizzone (i limiti dell'art. 81 cod. pen.; che non sia stato operato
un surrettizio cumulo materiale di pene; la sussistenza della proporzione fra
pena principale e pene dei delitti satellite) per verificare l'adeguatezza
della motivazione, sui quali il ricorso nulla adduce, cosicché sul punto si
palesa assolutamente generico.
Quanto alle circostanze attenuanti generiche, la
motivazione che le nega risulta assolutamente congrua e in sintonia con i
principi in materia, risultando indicate le ragioni ostative al riconoscimento.
Difatti, secondo il consolidato insegnamento di questa
Corte le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le
possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all'imputato in
considerazione di altrimenti non codificabili situazioni e circostanze che
effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della
capacità a delinquere del suo autore. In tal senso la necessità di tale
adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, avendo il
giudice l'obbligo, quando ne affermi la sussistenza, di fornire apposita e
specifica motivazione idonea a fare emergere gli elementi atti a giustificare
la mitigazione del trattamento sanzionatorio (ex multis Sez. 3, n. 19639 del 27
gennaio 2012, Gallo e altri, Rv. 252900; Sez. 5, n. 7562 del 17/01/2013 - dep.
15/02/2013, P.G. in proc. La Selva, Rv. 254716). Ed è in questa cornice che
devono essere inseriti gli ulteriori principi per cui la concessione o meno
delle attenuanti generiche rientra nell'ambito di un giudizio di fatto rimesso
alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei
soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa
l'adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità
del reo, anche quindi limitandosi a prendere in esame, tra gli elementi
indicati dall'art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente
ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio (Sez. 6 n. 41365
del 28 ottobre 2010, Straface, rv 248737; Sez. 2, n. 3609 del 18 gennaio 2011,
Sermone e altri, Rv. 249163). Ed è a ciò che la Corte di merito si è attenuta.
5. In ordine all'annullamento della sentenza senza
rinvio richiesto dalla Procura generale, deve rilevarsi come né con il presente
ricorso, né con l'atto di appello è stata eccepita la prescrizione cosicché, a
fronte della inammissibilità complessiva del ricorso ora in esame non è
consentito a questa Corte di rilevare l'eventuale estinzione per prescrizione
dei reati intervenuta prima della sentenza di appello.
Difatti, autorevolmente è stato affermato che
l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di
rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609 comma secondo, cod. proc. pen.,
l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla
pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede
e neppure dedotta con i motivi di ricorso (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015,
dep. 2016, Ricci, Rv. 266818 - 01; in motivazione la Corte ha precisato che l'art. 129 cod. proc. pen. non riveste una
valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo
al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle
forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia
una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e
che presuppone la proposizione di una valida impugnazione).
6. All'inammissibilità del ricorso consegue la
condanna della parte ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p. (come modificato ex L. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle
spese del procedimento e al versamento della somma di euro 3.000,00 in favore
della Cassa delle ammende.
Inoltre, il ricorrente va condannato alla rifusione
delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla
parte civile, che liquida in complessivi euro 1.800,00, oltre accessori di
legge.
7. D'ufficio va disposto l'oscuramento dei dati
personali, attesa la necessità prevista dall'art. 52, comma 2, d.lgs. 196/2003 di
predisporre tale misura a tutela dei diritti e della dignità degli interessati.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila
in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle
spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte
civile, che liquida in complessivi euro 1800,00, oltre accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento
andranno omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla
legge.
Fonte: DIRITTOeGIUSTIZIA
https://www.dirittoegiustizia.it/#/documentDetail/10905113